Da tempo si discute sull’opportunità o meno di assegnare compiti delle vacanze. Quest’anno perfino il ministro dell’istruzione è intervenuto sulla vicenda, raccomandando agli insegnanti di non eccedere. Il problema sta proprio nella linea di confine: cosa significa eccedere? Ogni bambino, ogni studente, è diverso, e la quantità di compiti non pesa allo stesso modo su tutti. La standardizzazione dei carichi di lavoro è inevitabile entro certi termini, ma ogni insegnante che faccia con passione il proprio lavoro conosce i bambini che ha e sa bene quali vadano sostenuti maggiormente, e soprattutto in quale modo.
Il senso dei compiti delle vacanze, in un Paese in cui a differenza di molti altri le vacanze estive durano dodici settimane – se non di più, come quest’anno – è di sostenere i bambini durante un periodo di assenza dalla scuola piuttosto lungo, in cui non sempre hanno occasione di essere stimolati come avviene a scuola. Allo stesso tempo, i bambini hanno giustamente bisogno di rilassarsi, di “staccare”, di cambiare ritmo e modo di vivere.
Forse una strada può essere quella di cominciare a valutare lo studio, e quindi anche i compiti, non solo come una fatica ma anche come un esercizio di curiosità: se ben distribuiti e se di qualità, possono stimolare e perfino divertire i bambini. Apprendere necessita indubbiamente di un certo impegno: concentrazione e applicazione. Ma i modi di questa ricetta possono variare molto. Sta alla saggezza dell’insegnante capire come comportarsi, offrendo proposte di lettura ed esercizio che possano essere piacevoli e non opprimenti, sufficientemente diluiti nel lungo tempo estivo.
Inoltre possono essere un esercizio di autonomia per i bambini: molti genitori seguono i figli nei compiti scolastici e l’estate, quando l’esercizio è meno determinante ai fini dell’apprendimento, può rappresentare l’occasione di lasciare che i bambini si organizzino da soli – con il rischio anche di sbagliare, ma con la grande conquista di un maggiore senso di responsabilità verso se stessi.